L'Epopea di Pabuji

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Umberto Mondini

L'EPOPEA DI PABUJI
Le cerimonie nuziali

Edizioni Progetto Cultura-Collana Quaderni di Ricerca (7), Roma, 2013,

pp. 176, € 15,00
ISBN 978-88-6092-591-6

 

 


Il libro di Umberto Mondini, L'epopea di Pabuji. Le cerimonie nuziali, si inserisce proficuamente nell'ambito di indagine, inaugurato e alimentato dalla pluriventennale ricerca di John D. Smith1, avente per oggetto il grande poema epico orale in lingua rājasthānī dedicato alle gesta di Pābūjī, un eroe locale divinizzato, a tutt'oggi termine della devozione di ampi strati della popolazione dell'India nord-occidentale e, in particolar modo, degli appartenenti alla casta pastorale dei Raika.

L'opinione degli studiosi converge nel ritenere Pābūjī un personaggio storico, vissuto presumibilmente agli inizi del XIV secolo, appartenente alla casta dei Rajput e al clan dei Rathore, e originario del villaggio di Kolu, nel Rajasthan occidentale. La più consistente fonte di informazioni su Pābūjī e sulla maggior parte dei personaggi dell'epopea è la famosa cronaca intitolata Naiṇasī Khyāta, scritta nel XVII secolo da Mūhato Naiṇasi, il primo ministro del re Jasvant Singh di Jodhpur. Smith ritiene che il Pābūjī storico fosse un "brigand who lived by his wits and his weapons"1, definizione non accolta da tutti gli studiosi e che, secondo quanto affermato da Umberto Mondini, non corrisponderebbe neanche alla percezione che di Pābūjī hanno i suoi principali devoti, i membri, cioè, della casta dei Raika. Mondini sostiene come, più che un "noble brigand", Pābūjī costituisca un esempio di eroe rājpūt locale impegnato nella protezione del bestiame e degli armenti fino al sacrificio della sua stessa vita. Oltre a incarnare appieno la fondamentale funzione religiosa e sociale inerente allo status rājpūt, quella di protettore delle vacche e dei brahmani, Pābūjī è, per l'Autore, assimilabile alla figura del bhomiyā, colui che sottomette la propria esistenza alla salvaguardia delle mucche e che, in ragione di ciò, è adorato dopo la morte. Tale identificazione confermerebbe peraltro la constatazione di Sontheimer2 secondo cui la tradizione eroica riveste un posto importante nelle società pastorali, quale è quella raika. Tuttavia, secondo quanto afferma Srivastava1, la devozione raika nei confronti di Pābūjī non troverebbe giustificazione nella sua qualità di bhomiyā, quanto nel ruolo, riconosciutogli dalla tradizione locale, avuto nell'introdurre nella regione del Marvar i cammelli e nell'assegnare, come diretta conseguenza di tale impresa, una precisa identità occupazionale ai Raika.

Il racconto delle gesta di Pābūjī è appannaggio dei Bhopa i quali, in esibizioni che si protraggono dal tramonto all'alba, a volte anche per più notti successive, narrano le vicende che scandiscono l'esistenza dell'eroe deificato, accompagnandone il canto con il suono del loro caratteristico strumento musicale, il rāvanhatthā, e con la rappresentazione, su una lunga stoffa dipinta, la paṛ, dei circa 172 episodi in cui si articola il ciclo epico della divinità. L'illustrazione, sulla paṛ, dei diversi momenti di cui si compone l'epopea di Pābūjī non riproduce la cronologia con cui essi si succedono nella struttura del racconto: la traduzione iconografica dell'epopea non è, infatti, ordinata in obbedienza a un criterio temporale, bensì spaziale. L'adozione di tale principio organizzativo rende il manufatto una sorta di "epic map" o "epic geography". La locuzione Pābūjī paṛ, oltre a indicare questo caratteristico supporto iconografico che completa il canto e la fruizione dell'epopea, allude anche alla più caratteristica modalità di narrazione di quest'ultima. In questa seconda accezione la Pābūjī paṛ prevede che il musicista/cantore, accompagnato ininterrottamente dal suono del rāvanhatthā, alterni, secondo moduli fissi, il proprio canto a quello della propria moglie, avendo cura di indicare, di volta in volta, la corrispondenza degli episodi narrati con quelli dipinti sulla paṛ. All'esibizione non è estranea la componente coreutica: il cantore, che indossa le caratteristiche cavigliere, ghuṁghrū, costituite da file di campanellini in ottone attorcigliate in più giri intorno alle caviglie, improvvisa sequenze di passi di danza che aggiungono un ulteriore elemento ritmico alla performance. Le caratteristiche e i tempi della Pābūjī paṛ, e delle sue varianti a uso e consumo turistico, sono illustrati con dovizia di particolari nel testo di Mondini, in cui è ugualmente esplicitata e giustificata la natura della paṛ quale santuario portatile.

L'epopea di Pābūjī unisce, dunque, la narrazione orale all'accompagnamento musicale, la rappresentazione pittorica all'elemento coreutico, il dato storico alla dimensione rituale, e implica il coinvolgimento attivo di diversi segmenti della società. Tuttavia nel panorama culturale rājasthānī, non costituisce un unicum: oltre a quello di Pābūjī, la tradizione regionale contempla l'esistenza di un altro ciclo epico, quello di Devnārāyaṇ dei Bagṛāvat, che prevede ugualmente che l'esibizione del cantore/musicista avvenga al cospetto della paṛ, vera e propria controparte visiva dell'espressione orale.

La più antica paṛ conservatosi è datata al 1867: sebbene l'arte della paṛ non possa, apparentemente, essere ricondotta che agli inizi del XIX secolo, è tuttavia lecito ipotizzare che essa costituisca uno sviluppo successivo di una più antica forma d'arte di dipinti murali, di cui qualche esempio può essere rintracciato nella regione dello Shekhawati. I dipinti di cui si compone la paṛ, estrapolati dalla loro cornice narrativa e rituale, sono, peraltro, diventati, da più punti di vista, il paradigma dell'arte folklorica indiana.

Nella prefazione alla più recente ri-edizione (2005) dell'ormai classico The epic of Pabuji: A study, transcription and translation, l'autore, John D. Smith, registra la progressiva e, a suo giudizio, inesorabile perdita di popolarità e attualità che nel corso degli ultimi due/tre decenni avrebbe investito una tradizione che, nei primi anni Settanta del secolo scorso, appariva tanto saldamente radicata nel panorama socio-culturale della regione, da non lasciare intravedere alcun segno di quel declino che, negli anni Novanta, sembrava prefigurare la sua imminente scomparsa. Tuttavia, l'esperienza sul campo da cui prende le mosse il testo di Umberto Mondini e, nella fattispecie, la ricerca condotta dall'autore con la comunità bhopa residente nelle immediate vicinanze di Pushkar, sembrerebbe, invece, testimoniare la ricettività e la capacità di adattamento della comunità di cantori alle mutate condizioni socio-economiche e culturali del Rajasthan e la conseguente disponibilità a riformulare, ripensare e ristrutturare i tempi, i modi e i contenuti del proprio patrimonio artistico. Il testo di Umberto Mondini lascia intravedere, accennandovi, le strategie e le modalità attraverso cui i Bhopa di Pushkar tentano di individuare nuove e diverse forme, da accompagnare a quelle tradizionali, di valorizzazione del proprio patrimonio letterario-coreutico-musicale. La ricerca di Umberto Mondini testimonia implicitamente della vitalità della tradizione folklorica rājasthānī e dell'esistenza di una dialettica globale-locale che non equivale, se non superficialmente, al magma tentacolare di una cultura transnazionale orientata alla prassi e ai valori statunitensi. Occorre anche ricordare come la constatazione di Smith sia contraddetta dal crescente interesse che, attualmente, seppur in cornici diverse da quella da cui la Pābūjī paṛ trae la propria legittimazione religiosa e devozionale, sta investendo tale espressione artistica. Personalmente ritengo che, allo stato presente, la Pābūjī paṛ viva una dimensione dialettica agita, da una parte, dal radicamento nella tradizione popolare rājasthānī e, dall'altra, da sollecitazioni provenienti dall'industria turistica, dalle logiche della commercializzazione dell'arte folklorica e dai meccanismi e dalle strategie innescati dai fenomeni di globalizzazione culturale. Il capitolo dedicato a Mohan Bhopa, all'interno dell'opera di William Dalrymple, Nove vite1, mi pare testimoni precisamente tale condizione di sospensione dinamica.

Preceduto da una quanto mai appropriata e calzante prefazione di Bruno Lo Turco che, con mirabile chiarezza espositiva, delinea lo status accordato alla scrittura e all'auralità nella tradizione indiana, il testo di Umberto Mondini si compone, idealmente, di due parti. Nella prima, che comprende i quattro capitoli iniziali, l'Autore, dopo aver offerto un sunto, al contempo esauriente e godibile, dell'epopea, propone un'analisi storico-sociale tanto dei contenuti dell'opera, quanto delle modalità della sua fruizione. La disamina di quest'ultimo aspetto comprende un'introduzione ai due principali gruppi di attori sociali coinvolti nella narrazione delle gesta di Pābūjī: la comunità di cantori/musicisti cui è demandato il canto delle imprese del divino Pābūjī, i Nayak Bhopa, e la casta dei Raika/Rabari di cui Pābūjī è la divinità tutelare e i cui membri costituiscono, pertanto, i principali interlocutori dell'arte dei Bhopa. Rispetto alla definizione sociale di questi ultimi, si registra un'identificazione ambigua che, peraltro, ricorre nella letteratura di riferimento: l'aporia consiste nel ritenere i Bhopa, al contempo, membri di una casta e parte "del gruppo etnico dei Bhil". I Bhil, la cui definizione legale li assimila a una Scheduled Tribe, costituiscono una delle più nutrite comunità di ādivāsī presenti in India, i cui membri abitano ampie porzioni del Rajasthanmeridionale, del Madhya Pradesh occidentale, del Gujarat e della parte settentrionale del Maharashtra.

La rilevanza del gruppo non si esprime solo in termini numerici, ma si traduce anche e soprattutto nel riconoscimento, sancito anche iconograficamente nell'emblema dello stato del Mewar1, della centralità e della preminenza di tale comunità nelle dinamiche socio-politiche del Rajasthan. I Bhopa, invece, nella percezione che di essi hanno i membri della composita popolazione di Pushkar, luogo in cui l'Autore ha compiuto la propria ricerca sul campo, sono considerati una casta dallo status molto basso, ma, tuttavia, superiore a quello dei membri di altre Scheduled Caste presenti sul territorio, quali, per esempio, quelle dei Kalbeliya, dei Nat e dei Sansi. La precisa e univoca identificazione sociale dei sacerdoti di Pābūjī è resa ulteriormente opaca da un duplice ordine di considerazioni: da una parte, è necessario considerare come il termine "bhopa" sia volentieri adottato per designare una particolare categoria di specialisti del sacro, la cui appartenenza castale fa capo a diversi gruppi endogamici; dall'altra, occorre ricordare come ogni casta in Rajasthan sia identificabile da almeno tre denominazioni. Srivastava2, in virtù di tale presupposto ampiamente documentato e argomentato da Komal Kothari3, ritiene che i termini "bhopa", "naik" e "thori" concorrano, con sfumature diverse, a identificare la medesima appartenenza castale. In tale trittico nominale, l'appellativo "bhopa" conserverebbe un valore onirifico, mentre quello di "thori" sarebbe indice di un intento denigratorio e insultante, mentre "naik" non sarebbe investito da particolari connotazioni. La difficoltà che sorge qualora si intenda adottare la nomenclatura di Srivastava riguarda il termine "naik", che non compare in nessuna lista di Scheduled Caste e che andrebbe verosimilmente sostituito dal vocabolo "nayak", presente, in coppia con il termine "thori", nell'elenco di Scheduled Caste del Rajasthan4, oltre che nella letteratura di riferimento5.

Definita la cornice rituale-devozionale della Pābūjī paṛ, l'Autore offre una selezione di brani estrapolati dall'epopea, che prelude e introduce l'argomento cui è dedicata la seconda parte del volume. Negli ultimi due capitoli l'accento è, infatti, posto sulla descrizione delle cerimonie nuziali, sia come compaiono nel racconto epico, sia come si appalesano nella prassi rituale delle principali comunità contemplate nell'epopea. L'Autore si sofferma, con grande precisione e puntualità, sulle diverse fasi che scandiscono la celebrazione di uno dei più importanti saṃskāra hindu, avendo cura di evidenziare e valorizzare le peculiarità proprie alle tradizioni dei tre gruppi presi in considerazione: i Raika, i Rabari e i Bhil. I termini "raika" e "rabari" sembrano, qui, alludere a due comunità distinte, sebbene, generalmente, i due vocaboli alludano alla medesima unità endogama, cui è attribuito uno o l'altro dei due appellativi secondo l'area geografica presa in considerazione. L'Autore si dimostra prodigo di informazioni e offre descrizioni molto dettagliate delle varie fasi in cui si declina la celebrazione delle nozze nelle tre comunità: si tratta certamente, nell'economia del volume, dell'apporto più originale allo studio e alla conoscenza dell'epopea di Pābūjī e particolarmente ammirevole è la volontà di intavolare un dialogo fra la tradizione inscritta nel ciclo epico dell'eroe rājasthānī e l'attualità socio-rituale dei gruppi che vi si trovano rappresentati.

La sostanziale conformità rilevata dall'Autore fra le cerimonie nuziali descritte nel poema e quelle a tutt'oggi osservate dalle comunità contemplate nella narrazione epica, è spiegata attraverso la formulazione di due ipotesi fondamentali, secondo cui tale fedeltà può essere ricondotta o alla capacità dei Bhopa di attualizzare i contenuti dell'opera, o a un elemento di continuità rituale che, peraltro, non sarebbe del tutto estraneo al modus operandi della tradizione indiana tout court. L'Autore sembra propendere per la prima dinamica, ritenendo che la comunità di cantori non possa non essere stata influenzata, nell'esercizio della propria arte, da sollecitazioni provenienti innanzitutto dai propri patroni e mecenati.

Questa ipotesi merita senz'altro di essere ulteriormente approfondita, anche in ragione di ciò che Srivastava1 definisce "ethnographic flesh" e che corrisponde a quella parte di narrazione che, costituita da aspetti e dinamiche di carattere quotidiano e universale, sollecita un'immediata identificazione da parte degli ascoltatori. Sebbene l'epica di Pābūjī abbia indubbiamente una struttura fissa, definita dalla somma degli episodi centrali e imprescindibili allo sviluppo del racconto, e, pertanto, non soggetta ad alcun tipo di alterazione, occorre, tuttavia, riconoscere a ogni singolo cantore la libertà di integrare la narrazione principale con descrizioni e interpolazioni, relative, per esempio, allo stato d'animo dei personaggi, o alla reazione, naturale o socialmente prescritta, a determinate circostanze, o, ancora, alla modalità con cui si manifestano particolari eventi.

Tali integrazioni e digressioni sono in grado di sollecitare nel pubblico una risposta di ordine emotivo e affettivo, da cui, in definitiva, dipende il giudizio sull'esibizione e sulle capacità del cantore. Si tenga presente come, secondo quanto afferma Srivastava1, la creatività del Bhopa non implichi un'alterazione dei contenuti dell'epopea, quanto una diversa modalità di descriverne gli eventi, esplorando le dinamiche emotive e affettive che li accompagnano o li determinano: non si tratta, dunque, di cambiare il racconto, ma di arricchirne la qualità emotiva. Occorre, dunque, capire se la flessibilità che sia Srivastava, sia Mondini, reputano connaturata alle modalità di narrazione dell'epopea, coinvolga la sola tonalità emotiva di quest'ultima o se ne alteri effettivamente i contenuti. Quale che sia la risposta a tale quesito, si è, in entrambi i casi, al cospetto di un'opera che prende forma nella convergenza e nell'incontro fra una comunità di artisti incaricati della sua trasmissione, un pubblico educato alla sua ricezione e una tradizione che si costituisce in itinere.

 

Maria Angelillo

 

1Ibid.

1Srivastava, The Rathore Rajput Hero of Rajasthan, pp. 602-609.

1L'emblema dello stato del Mewar riproduce l'immagine del forte di Chittor, alla destra e alla sinistra del quale è collocata rispettivamente la figura di un capo bhil e di un sovrano rājpūt.

2Srivastava, The Rathore Rajput Hero of Rajasthan, pp. 590-591.

3R. Bharucha, Rajasthan an oral history. Conversations with Komal Kothari, Penguin Books, Delhi, 2003.

4The Constitution (Scheduled Castes) Order, Part III. Rules and Orders under the Constitution. Rajasthan, Part XV, 1950.

5K. S. Singh, The Scheduled Castes, Oxford University Press, New Delhi, 1993.

K. S. Singh (ed.), People of India. Rajasthan, Vol. XXXVIII, Popular Prakashan, Mumbai, 1998.

1W. Dalrymple, Nove vite, Adelphi, Milano, 2011.

1V. K. Srivastava, The Rathore Rajput Hero of Rajasthan. Some Reflections on John Smith's The Epic of Pabuji, «Modern Asian Studies», 28, 3, 1994, pp. 589-614, p. 610.

1J. D. Smith, The epic of Pabuji: A study, transcription and translation, Cambridge University Press, Cambridge, 1991, p. 82.

2G. D. Sontheimer, Pastoral Deities in Western India, Oxford University Press, New York-Oxford, 1989.

1J. D. Smith, The epic of Pabuji: A study, transcription and translation, Cambridge University Press, Cambridge, 1991.

J. D. Smith, The epic of Pabuji, Katha, New Delhi, 2005.

J. D. Smith, The Singer or the Song? A reassessment of Lord's 'Oral Theory', «Man», 12, 1977, pp. 141-153.

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J. D. Smith, Winged words revisited: Diction and meaning in Pabuji, «Bulletin of the School of Oriental and African Studies», 62, 1999, pp. 267-305.

Recensore: 
Maria Angelillo
Data pubblicazione: 
07/10/2014