Talebani vent’anni dopo. Un movimento con più anime

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Taliban border guard in Turkham, Afghanistan, 2001
fonte: Wikimedia Commons

Un racconto lungo due decenni che inizia con l'ascesa degli studenti coranici. Sono cambiati? Sono omogenei? Come pensano di gestire le loro relazioni internazionali? Che rapporto c'è tra una raffinata cupola politica e le bande sul terreno?

17 agosto 2021  articolo di Emanuele Giordana

Proponiamo quest'articolo, già pubblicato sul blog Lettera22 , per gentile concessione dell'autore, che collabora con noi da più di 40 anni

Nel V anno dalla proclamazione dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, un fokker delle Nazioni Unite ci portò a Jalalabad, uno dei pochi ingressi nel Paese che mullah Omar governava da Kandahar, la città più tradizionalista del Paese dove Omar era nato e aveva fondato il movimento degli studenti coranici. Era l’anno 2000, ventun anni fa. Le formalità doganali venivano espletate da due ragazzi col kalashnikov che non sapevano né leggere né scrivere sulla pista di un malconcio aeroporto assolato dove stazionava un Dc-10 dell’Ariana, la vecchia compagnia di bandiera. Aveva i finestrini oscurati ma, sbirciando tra gli scatoloni che ne venivano scaricati, notammo i brand occidentali di radio o televisori che venivano dal Golfo. Allora, quando attraversammo un Paese in sfacelo, senza più strade e dove si erano rubati tutti i fili di rame dell’elettricità, solo Pakistan, EAU e Arabia saudita avevano riconosciuto l’emirato scalcinato che a Kandahar contava su un solo telefono pubblico e in cui le strade erano pattugliate dai pickup, la chiave della rapida avanzata talebana dal Pakistan verso Jalalabad e poi sempre più all’interno del Paese.

Oggi le cose sono cambiate. E non solo perché i pickup hanno cilindrate più potenti o perché ogni combattente ha un telefonino. Quell’emirato di rozzi contadini allevati nei campi profughi del Pakistan, cui la riscossa religiosa pareva anche la riconquista di una dignità, non è più così anche se non sappiamo esattamente cosa sarà. Né il vertice politico dei talebani odierni è lo stesso di allora, disposto ad accontentarsi del riconoscimento internazionale di soli tre Paesi o dei soldi di un bin Laden, motivo per il quale i nazionalisti pashtun di Omar avevano accettato di buon grado il facoltoso ideologo saudita.

Che non siano più gli stessi lo si capisce, per partire dalla guerra, dalla capillare rete di intelligence costruita mentre si negoziava a Doha con gli americani o, osserva qualcuno, da anni. Un rete sotterranea così segreta da sfuggire alle occhiute agenzie americane che non ne avevano probabilmente contezza. Una rete che preparava non solo la guerra guerreggiata ma quella, meno sanguinaria e meno impegnativa, dell’accordo sottobanco. Con governatori, capi villaggio, colonnelli e capitani. Gioco facile con un esercito governativo, sappiamo oggi con certezza, tenuto per mesi senza stipendio nonostante i miliardi iniettati dai consiglieri militari occidentali che, evidentemente, si sono per anni accontentati di resoconti di carta che non rispondevano alla realtà del terreno: quella di salari non pagati, di benzina rubata, di soldati fantasma a libro paga di un governo corrotto che ha già visto scappare all’estero ministri e funzionari (solo ieri l’agenzia Pajhwok ha reso noto il furto di 40 milioni di afganis dal Ministero dello Sviluppo Urbano e di 273 milioni pagati illegalmente a due società per un progetto solo sulla carta).

La costruzione di questa rete sofisticata, una delle ragioni della rapida vittoria talebana, dice dunque di una leadership sofisticata, non solo tecnologicamente. Negli anni questa leadership ha tentato di smarcarsi dal marchio pashtun sul movimento e ha persino tentato di dimostrarsi attenta ai bisogni delle donne, concedendo persino di aver fatto in passato degli errori. Una strada che sembra aprire in due direzioni: quella della ricerca del consenso interno in un mondo, soprattutto urbano, radicalmente cambiato. E quella del rendersi accettabili a un consesso da cui non si può esser più tagliati fuori. I Talebani di oggi, che sottolineano più del Corano una guerra fatta per l’indipendenza, non possono accettare che sia solo il Pakistan l’unico padrino da cui dipendere. Ecco dunque che le aperture di cinesi o russi (che non sono una novità) sono ben accette così come la possibilità che il loro regime sia si un regime, ma non del terrore.

Ma ammesso e non concesso che la leadership sia davvero cambiata, il che resta da dimostrare, qual è la distanza tra il vertice e i soldati della cui brutalità abbiamo già notizia? E quale può essere il prezzo che il vertice dovrà pagare ai capi bastone che hanno consentito la rapida conquista? I prossimi giorni diranno subito se si scatenerà, come tutti temiamo e come i locali ci raccontano, lo stillicidio della vendetta e della caccia al collaborazionista, o se, almeno di facciata, l’Emirato non voglia mostrarsi al mondo come un governo conservatore ma non solo di efferati aguzzini.

Questo articolo è stato pubblicato anche su ilmanifesto e atlanteguerre.it

 

Emanuele Giordana, asiatista e collaboratore del Centro di Cultura Italia Asia da 40 anni, è direttore del portale atlanteguerre.it.
E' stato tra i cofondatori dell'Agenzia Lettera22 e per 10 anni una delle voci di Radio3modno a RadioRai.
Attualmente è presidente di Afgana, associazione per la ricerca e il sostegno alla società civile afgana.

Area: 
Asia meridionale
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